Contrada, giustizia italiana “Ko”

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bruno_contradaDi Vittorio Spada

 

Bruno Contrada, giustizia italiana “Ko”: per la Corte europea l’ex agente dei servizi segreti italiani (Sisde) non era da condannare per concorso esterno in associazione mafiosa. Per la Corte dei diritti umani di Strasburgo “all’epoca dei fatti contestati, tra il 1979 e il 1988” il reato “non era sufficientemente chiaro e prevedibile” e quindi da parte di Contrada non c’è stata una “violazione dell’articolo 7 della Convenzione”. Già nel 2014 la corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per la detenzione dell’ex funzionario del Sisde. Secondo i giudici le condizioni di salute di Contrada, tra il 2007 e il 2008, non erano compatibili con il regime carcerario. Adesso i suoi legali puntano alla revisione del processo.

Arrestato, la vigilia del Natale del 1992, poi a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, Bruno Contrada venne condannato a 10 anni di carcere il 5 aprile del 1996. La sentenza venne ribaltata in Corte d’appello il 4 maggio del 2001: assolto. La Cassazione, a quel punto, rinvia gli atti a Palermo, quindi la nuova condanna a 10 anni nel 2006, dopo 31 ore di Camera di consiglio della Corte d’appello palermitana, e la conferma della Cassazione l’anno successivo. Dopo il carcere, gli arresti domiciliari e a conclusione la fine pena nell’ottobre del 2012.

Bruno Contrada ha lottato sostenendo sempre di voler “salvaguardare l’onore di un uomo delle istituzioni“, e chiedendo ripetutamente.”Voglio l’onore che mi hanno tolto, non ho perso fiducia nello Stato”. Contrada si è rivolto alla Corte di Strasburgo nel luglio del 2008 affermando che – in base all’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti umani, che stabilisce il principio “nulla pena sine lege” – non avrebbe dovuto essere condannato perché “il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso è il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza italiana posteriore all’epoca in cui lui avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato”. I giudici di Strasburgo gli hanno dato ragione, affermando che i tribunali italiani nel condannare Contrada non hanno rispettato i principi di “non retroattività e di prevedibilità della legge penale”. Nella sentenza i magistrati affermano che “il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è stato il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza iniziata verso la fine degli anni Ottanta e consolidatasi nel 1994 e che pertanto la legge non era sufficientemente chiara e prevedibile per Bruno Contrada nel momento in cui avrebbe commesso i fatti contestatigli”.

A SEGUIRE RIPORTIAMO IL CONTENUTO INTEGRALE DI UN DOSSIER SUL CASO CONTRADA PUBBLICATO DA QUESTO GIORNALE NEL 2007 (26 OTTOBRE 2007 )

IL CASO CONTRADA

di Giuseppe Lipera

Come è possibile ormai evincere dal susseguirsi di continue opinioni e suggerimenti, autorevoli e non, in Italia il problema giustizia è giunto ad uno dei suoi nodi cruciali; è in questo clima di dibattito e riflessione che il pensiero si ferma puntualmente su alcuni uomini il cui esempio virtuoso, di servitori attenti e fedeli, è stato infangato e calpestato da accuse ingiuriose. È triste pensare che una vita retta ed onesta nel nostro Stato possa essere messa in discussione dalla semplice parola di dubbi individui, o peggio loschi figuri, e appare ancor più triste constatare il mal costume italiano che vede in ogni soggetto accusato di un reato non un mero indagato, bensì già un colpevole pronto per la forca. Così la cronaca, mentre scriviamo questo articolo, riporta la notizia dei funerali del povero Gigi Sabani ucciso per tre volte; la prima dalle ingiuriose accuse che lo vedevano protagonista, la seconda dai produttori che non volevano sfidare il pregiudizio del pubblico sempre più ingordo di finti vip rigurgiti dei “reality” ed infine da un infarto: la morte che fa meno notizia di tutte; ironia della sorte questa passione giudiziaria accomuna il povero Sabani al proprio caro amico, anch’esso scomparso, Enzo Tortora altro non dimenticato grande capitolo triste di questa mala-giustizia italiana. La speranza ci impone di credere in un mondo migliore dove questi uomini trovino finalmente la pace ed il rispetto che meritano, ma non è forse ora il momento di agire per chi ancora, dopo una vita di servizio e rettitudine, è condannato nel nostro Paese all’ ingiuria? Come può un Paese che si definisce civile lasciare che uomini onesti abbiano questo bieco destino? Un esempio su tutti penso possa ampiamente essere rappresentato dalla triste vicenda giudiziaria di Bruno Contrada. Contrada nasce a Napoli nel settembre del 1931, il suo sogno è servire attivamente lo Stato ed è cosi che nel 1958, dopo aver frequentato l’istituto superiore di polizia, entra in detto corpo e viene assegnato, dopo qualche tempo, ad un tranquillo commissariato della regione Lazio. Successivamente la sorte vuole che egli finisca in quella che all’ epoca era sicuramente una delle realtà più complicate e pericolose, la città di Palermo; qui Contrada dà il meglio di sé, nel 1973 diviene capo della Squadra Mobile, nel 1976 dirigente della Criminalpol per la Sicilia occidentale, nel 1982 è membro attivo del SISDE nonché capo del Gabinetto dell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia istituito dall’allora prefetto De Francesco. Le operazioni compiute da Bruno Contrada contro la criminalità sono innumerevoli e meriterebbero una trattazione molto più lunga di quanto è in questa sede opportuno, basti pensare che molte delle informazioni da lui raccolte vengono tutt’oggi utilizzate dagli inquirenti e sono state utili per arresti eccellenti ed operazioni di polizia in generale. Tutto nella vita professionale di quest’uomo merita elogi, lusinghe, apprezzamenti, e chi non conosce la triste vicenda di questo servitore dello Stato, a questo punto, magari è portato a pensare che Bruno Contrada sia felicemente in pensione tra i suoi cari, che forse anche a lui è dedicata una via o addirittura una stanza al Quirinale o a Palazzo Madama (visto che è uso farlo con chi si ritiene rappresenti un esempio); invece la storia reale e concreta, non quella concepita con la fantasia di un fanciullo, racconta di un Contrada predato da calunnie, abbandonato all’oblio, decapitato subdolamente anche da quelle stesse persone che un tempo lo incoraggiavano ed ammiravano.

Arrestato dalla DIA alla vigilia di Natale

Il 23 dicembre 1992 il G.I.P. del Tribunale di Palermo firma un ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Bruno Contrada che il giorno, la vigilia di Natale, mentre si accingeva a passare con la famiglia la sacra festività, viene prelevato dalla D.I.A. (Direzione Investigativa Antimafia); un uomo che ha dedicato la sua vita alla lotta al crimine viene accusato di “concorso esterno in associazione mafiosa” e ad aumentare lo sgomento è un particolare inquietante: ad accusarlo sono i destinatari del suo operato ovvero quattro appartenenti alla delinquenza che il nostro Stato definisce (impropriamente, con fallace ed edulcorata terminologia) “collaboratori di giustizia” o “pentiti”. “Collaboratore di giustizia”, infatti, è una definizione infelice, non appropriata per uomini (anche se il termine “bestie” sembrerebbe più calzante) che hanno ucciso, stuprato e fatto del delinquere il loro pane quotidiano; sinistri individui che improvvisamente decidono di rivelare allo Stato trame sconosciute in cambio di vitto, alloggio e di una nuova identità che certo non cancella il male che hanno procurato e che in alcuni casi, come questo, continua a perpetrarsi. Comunque un dato è certo: sono, come diceva Mauro Meillini oltre venti anni fa, dei criminali reo confessi. Altro argomento da approfondire, per la sua complessità, riguarda il reato di cui è accusato Bruno Contrada, e cioè il “concorso esterno in associazione mafiosa”. Tale reato non nasce da una norma del nostro codice penale attualmente in vigore, come accade per tutti gli altri delitti, bensì può ampiamente definirsi una creazione giurisprudenziale. Tale fenomeno ha creato e crea nel panorama giuridico non poche perplessità, in quanto a molti operatori del diritto risulta assai difficoltoso inquadrare la configurabilità di tale fattispecie criminosa. Benché in più pronunzie la Suprema Corte di Cassazione abbia stabilito che il reato riguarda: “quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio, forniscano, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ ente delittuoso tale da consentire all’ associazione di mantenersi in vita, anche limitatamente ad un determinato settore, onde poter conseguire i propri scopi” (Cass. Sez. Unite Penali 5 ottobre 1994), lasciando da parte il rigore della tecnica, è da dire che il “concorso esterno” suscita esitazioni e perplessità poiché: in primis, trattasi, come si diceva, di un reato non codificato, ed in quanto tale solletica notevolmente gli imbarazzi (“illuminazione od ottenebramento” giuridico?); in secundis che le pronunzie della Suprema Corte, più che un effetto chiarificatore della fattispecie, fanno sorgere nuovi inquietanti disagi e preoccupanti problematiche: come è possibile infatti, analizzata la definizione di concorrente esterno, tracciare tra questo e la figura dell’affiliato interno una netta linea di demarcazione? Si evince in realtà che il profilo psicologico dell’ “intraneo” è incontrovertibilmente legato a quello dell’ “extraneo”; questo non solo crea la sovrapposizione di due figure tanto differenti quanto inconciliabili, ma ha il preoccupante e tragico effetto di aumentare il raggio di imputabilità a livelli decisamente eccessivi ed inaccettabili; infatti risulta troppo alto il rischio di abbagli e di errori (nel frattempo però una esistenza dignitosa è stata ingenerosamente devastata, acriticamente mortificata e, cosa ancor più grave, radicalmente distrutta) su individui che vengono così trascinati drammaticamente all’interno della fattispecie criminosa in maniera poco chiara ed arbitraria, sulla base di elementi di scarsa concretezza. Ma torniamo a Bruno Contrada. A far da padrone nella vicenda sono state le dichiarazioni dei pentiti, dei criminali reo confessi che dicevamo prima; uno dei primi a parlare è Gaspare Mutolo che accusa Contrada della frequentazione di un appartamento sito in via Jung 12 a Palermo, che, sempre secondo il Mutolo, fu messo a disposizione dal costruttore mafioso Angelo Graziano; queste circostanze si riveleranno in ogni caso false, in quanto l’appartamento risulterà essere stato, inizialmente, nella disponibilità del costruttore dello stabile e, successivamente, in quella di un magistrato (di cui omettiamo il nome perché è morto). Risulta essere inoltre difficilmente ipotizzabile una presunta alleanza tra l’imputato e il Graziano in quanto questi nel 1975, lo stesso anno in cui sarebbe stato messo a disposizione l’appartamento, veniva arrestato e denunziato proprio da Contrada per estorsioni praticate anche attraverso l’uso di esplosivi. Le dichiarazioni del Mutolo interessano poi anche una presunta “confidenza” espressagli dall’allora capo della famiglia mafiosa dei PartannaMondello, tale Rosario Riccobono (deceduto); la voce vedeva il dottor Contrada uomo di fiducia dei maggiori esponenti della faida palermitana come Riina, Greco, Scaglione e Inzerillo. Il “pentito” parla di incontri anche in luoghi pubblici, datandoli in un periodo caratterizzato dalla presenza di enormi conflitti all’interno delle cosche. Quest’ultimo particolare rende totalmente assurdo quanto dichiarato dal Mutolo; chi infatti conosce le dinamiche di questi conflitti sa quanto sia pericoloso per un boss muoversi liberamente, senza il rischio di subire attentati alla vita, figuriamoci poi un incontro in un luogo pubblico insieme ad uno degli operatori di polizia più conosciuti di Palermo. In ogni caso, si ribadisce, di quanto affermato non esiste alcun elemento oggettivo di riscontro. Altro episodio enunciato in aula riguarda l’acquisto, nel 1981, di una autovettura Alfa Romeo del valore di quindicimilioni delle vecchie lire, ordinata da Contrada e destinata ad una persona amica come regalo natalizio; tutte le ricerche effettuate in merito si sono rivelate assolutamente infruttuose. L’unica verità sicura è che Gaspare Mutolo è stato uno dei mafiosi più indagati dagli enti antimafia e che nel suo curriculum criminale annovera anche l’omicidio del poliziotto Gaetano Cappiello affezionato collaboratore del dottor Contrada. Ulteriori accuse arrivano da Giuseppe Marchese; questi sostiene che Contrada, nel lontano 1981, abbia informato il Riina di un imminente blitz della polizia nella casa di Borgo Molara, dove il boss si trovava; tale avvertimento aveva portato il Reiina a trasferirsi in altra località e precisamente a S. Giuseppe Iato. Anche questa dichiarazione merita delle opportune considerazioni: la prima è senz’altro che la polizia di Palermo è a conoscenza del rifugio di Borgo Malara solo dal 1984, indi nel 1981 non solo non vi è nessun blitz in programma ma non si conosce neanche l’esistenza di codesto nascondiglio. La seconda è che in altro interrogatorio, precedente a queste dichiarazioni, il Marchese parla dello stesso trasferimento motivandolo, però, sulla base della guerra tra cosche e parlando di un trasferimento per motivi cautelari e di sicurezza; dunque altre notevoli perplessità. Sempre nel 1992 Contrada viene accusato anche da Rosario Spatola; questi sostiene che l’imputato appartiene ad una loggia massonica comprendente anche noti boss mafiosi del Palermitano, la prova di questo sodalizio si concretizzerebbe in un episodio riguardante la fuga di Riina ed altri da un matrimonio a Cefalù presso l’Hotel Costa Verde nel 1984.

Anche in questo caso il “pentito” di turno commette un errore non da poco. Nel 1984 infatti Bruno Contrada aveva gia abbandonato gli uffici della Polizia per dedicarsi al Gabinetto dell’Alto Commissario De Francesco; è concepibile che sia a conoscenza di delicatissime operazioni di polizia che per definizione si giocano sul terreno della massima discrezione e della assoluta riservatezza, proprio per limitare e contenere il rischio di infiltrazioni? Spatola non si ferma qui; afferma successivamente che il dottor Contrada è protagonista di un pranzo con il boss Riccobono in persona in una saletta personale presso il ristorante “il Delfino” di Sferracavallo, in provincia di Palermo; a riferirgli della presenza di Contrada, che lui non ha mai visto, sono i fratelli Di Caro, boss mafiosi, compagni, secondo Spatola, di una loggia segreta istituita dall’imputato. Tralasciando la totale smentita dei fratelli Di Caro, secondo i quali Spatola riferisce il falso, i sopralluoghi presso il ristorante “il Delfino” confermeranno che ivi non esiste alcuna saletta appartata, alcun “privé” che possa fornire residua dignità al racconto; valutata tale fattispecie il pentito cambierà la propria versione indicando come luogo del pranzo, non più una saletta, bensì semplicemente un “angolo riservato” (fortuna per Spatola che la sala non fosse ovale altrimenti chissà cosa avrebbe ingegnato…) della medesima sala. Tutto lascia spazio a più di un ragionevole dubbio! Successive dichiarazioni riguardano il “pentito” Salvatore Cancemi: questi afferma che Bruno Contrada favorì il disbrigo della pratica di porto d’armi di Stefano Bontate. Tale circostanza è inverosimile per due motivi fondamentali: il primo è che la pratica risale al 1960, mentre Contrada prende servizio a Palermo solo nel 1962; la seconda, che fu proprio Contrada nel 1963 a chiedere la revoca del documento e a sconsigliare categoricamente il rinnovo che, infatti, alla scadenza non fu più rinnovato. Quanto finora descritto, a detta di chi scrive, dimostra inequivocabilmente che le indagini sono state condotte con discutibile professionalità ed evidente pressappochismo; ma soprattutto, cosa assai grave, che la volontà preminente è consistita nello “sparare a salve” ovvero nell’evitare che si agisse per una corretta e vera conoscenza dei fatti accaduti. Oltre i cosiddetti “pentiti” ad accusare Contrada sono anche degli stimati operatori dello Stato tra cui, un nome su tutti, Antonino Caponnetto; gli episodi raccontati dall’allora consigliere istruttore hanno del raccapricciante, se si considera che sono solo un cumulo di impressioni ed opinioni accompagnate da qualche accadimento, diciamo, “colorito”; su tutti merita di essere ricordato un episodio, che con molta tristezza, è stato negli anni passati riportato da molti quotidiani affamati di scoop pretestuosi e di informazione dietrologica. Caponnetto racconta di un interrogatorio condotto con il dottor Falcone in merito all’omicidio di Piersanti Mattarella e riferisce dell’interrogatorio condotto al dott. Contrada: “Io ricordo che una volta ascoltammo Contrada come testimone e insieme a me c’era Giovanni Falcone. Al momento del commiato gli stringemmo la mano, poi Contrada uscì e Falcone ostentatamente si pulì la mano sui pantaloni.” ; dopo aver riletto molte volte questa dichiarazione ci siamo chiesti se sia più grave che simili narrazioni entrino in un processo o se sia ancor più drammatico accordare ad esse un qualche valore, un visto che ne certifichi una certa dignità intellettuale per mandare (ottenendo così il favore del connivente popolo “ignorante”, poiché tenuto all’oscuro delle bizzarrie processuali e cibato soltanto di scoop pittoreschi) Contrada dritto al patibolo; la risposta in entrambi i casi lascia in bocca un sapore troppo amaro da sopportare. Ciò che però emerge da questa dichiarazione è ancora più stupefacente e grave di quanto si immagini; infatti Caponnetto viene smentito su un particolare: non risulta nessuna presenza di Falcone nell’unico interrogatorio in cui Contrada e Caponnetto sono l’uno di fronte all’altro! Questo non merita davvero nessun commento ulteriore! Il processo a Bruno Contrada inizia il 12 Aprile 1994 davanti alla V Sezione penale del Tribunale di Palermo, la corte è composta dal presidente F. Ingargiola e dai due giudici S. Barresi e D. Puleo, l’accusa è sostenuta dai due procuratori della Repubblica A. Ingroia e A. Morvillo, la difesa infine è affidata agli avvocati G. Sbacchi e P. Milio del foro palermitano; il processo si protrae per 116 udienze nel quale si ascoltano centinai di testimoni, nel frattempo Contrada continua a rimanere in carcere e la sua salute comincia a vacillare. Nel giugno del 1995, durante un udienza, cade stremato al suolo in coma ipoglicemico. La scarcerazione, benché tardiva, arriva solo nel luglio del 1995: sono passati 31 mesi di carcere che lo hanno provato grandemente nel corpo e, cosa assai più grave, anche nello spirito. Il 19 Gennaio 1996 la pubblica accusa chiede, al termine di una lunghissima requisitoria, la condanna a 13 anni di reclusione per Bruno Contrada. È stato un processo basato solo su ciò che hanno riferito i pentiti e nonostante non vi siano mai stati riscontri oggettivi il Tribunale decise il 5 aprile del 1996 di condannare, dopo una giornata di Camera di consiglio, Bruno Contrada a 10 anni di reclusione e 3 anni di libertà vigilata. Nulla è chiaro in questa vicenda, la stessa sentenza parla non di elementi oggettivi e diretti ma solo di presunte concordanze che porterebbero non alla realtà degli accadimenti, ma a cosa si ritiene “verosimilmente” accaduto (in altri termini: stronco l’esistenza di un uomo, ne mortifico l’onorabilità, decapito il suo diritto di vivere perché “forse ha commesso un reato”). Alla difesa non resta che presentare appello. Siamo nel 2001, il processo questa volta viene celebrato di fronte la II sezione penale della Corte d’Appello di Palermo il cui presidente è G. Agnello, a sostenere l’accusa sono i sostituti procuratori N. Gatto e E. Costanzo che chiedono per Bruno Contrada una condanna ad undici anni di carcere. Il 4 maggio 2001 arriva la sentenza della Corte d’Appello, ed è forse questa la fase più limpida e chiara di questa oscura e gotica vicenda giudiziaria: succede infatti Bruno Contrada viene assolto con formula piena dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Finalmente sembra che la giustizia abbia fatto il suo corso ma solo l’anno dopo nel 2002, a seguito del ricorso in Cassazione della Procura generale palermitana, la Suprema Corte di Cassazione, dopo una camera di consiglio di soli trenta minuti, decide per l’annullamento della sentenza di 2° grado con il rinvio ad altro esame della Corte d’appello di Palermo. Insomma tutto da rifare: A nulla è valsa la ragionevole decisione della Corte d’appello, a nulla è valsa la richiesta di assoluzione arrivata dallo stesso Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione. L’incubo per Bruno Contrada deve continuare! Le ultime battute di questa vicenda sono storia recente; la seconda sentenza d’appello arriva il 26 Febbraio 2006 dopo circa 30 ore di Camera di consiglio. Il presidente della Corte è il dottor S. Scaduti, che in questa occasione avrebbe dovuto astenersi dal giudizio secondo quanto stabilito dall’art. 34 del Codice di Procedura penale poiché già si era espresso su Contrada in merito ad una istanza di scarceraziopresentata al Tribunale della libertà nel 1993, periodo in cui era appunto il presidente di quel Collegio. La nuova sentenza, che purtroppo vede il ripiombare della vicenda nella più cupa oscurità, condanna nuovamente a 10 anni di reclusione Bruno Contrada con una decisione clone del 1° grado di giudizio. Ancora una volta non resta che proporre l’ennesimo ricorso e sperare. L’ultimo atto di questa tragedia porta la data del 10 maggio 2007: a decidere questa volta è la VI sezione penale della Suprema Corte di Cassazione che conferma la condanna: Le porte del carcere per Bruno Contrada, che il 2 settembre ha compiuto la veneranda età di 77 anni, si riaprono nuovamente e definitivamente. Oggi Contrada è di nuovo nella sua Napoli ma non è tornato da eroe, e di certo non era questo che chiedeva alla vita: gli sarebbe bastato il riconoscimento per il bene reso alla sua patria, ed invece osserva la vita che lo abbandona in una cella del carcere militare di Santa Maria di Capua Vetere, umiliato da questo sistema che lo ha prima appallottolato e poi buttato via, negandogli la gratificazione più grande, cioè quella di finire i suoi giorni tra i propri cari in pace e nel rispetto della società che lui ha amato e difeso per tutta la vita. La nostra reazione deve essere forte, il nostro sdegno come uomini di giustizia e come cittadini non deve più tardare; un popolo che non riesce più ad alzare la testa ed a puntare il dito su tutte le ingiustizie è un popolo senza dignità. Ma a prescindere della innocenza di Contrada, cosa in cui noi crediamo con assoluta convinzione, ci domandiamo: è mai possibile che un uomo di 76 anni, che non ha ammazzato nessuno, debba stare in carcere, mentre se avesse rubato miliardi avrebbe potuto tranquillamente stare nella sua casa? Il signor Erich Priebke, ritenuto responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, è a casa; persone condannate per corruzione di miliardi sono a casa, sempre perché ultra settantenni, e godranno di tre anni di condono; Contrada no! Ha 76 anni ma deve marcire e morire in galera, poco importa che non abbia rubato neppure uno spillo. Contro di Lui hanno testimoniato i criminali (quelli veri perché reo confessi) ma, dicono loro stessi, pentiti. Che schifo tutto questo … Forse ha ragione Beppe Grillo!

*Ricerche ed elaborazioni a cura del dottor Davide Capizzi (p. avvocato nello Studio Legale dell’avv. Giuseppe Lipera). Ha collaborato il dott. Enrico Platania (p. avvocato nello Studio Legale dell’avv. Giuseppe Lipera). Supervisione dell’avv. Giuseppe Lipera www.studiolegalelipera.it

 

UN PROCESSO LUNGO 15 ANNI

 

Contrada venne arrestato il 24 dicembre 1992. In carcere rimase per trentuno mesi malgrado ricorsi presentati perfino alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Il 12 aprile del ’94 iniziò il primo processo a suo carico, e il 19 gennaio del ’96, al termine di una requisitoria protrattasi per 22 udienze, il Tribunale inflisse all’ex poliziotto 10 anni di reclusione e tre di libertà vigilata. Il verdetto di primo grado fu però ribaltato dalla Corte d’Appello di Palermo che nel 2001 assolse Contrada. Ma il 12 dicembre del 2002 la Cassasione riaprì il caso, annullando l’assoluzione e disponendo un nuovo giudizio presso la Corte d’Appello di Palermo che, l’anno scorso, pronunciò la sentenza di condanna recentemente confermata in Cassazione. Secondo la Suprema Corte sono valide le dichiarazioni di una decina di pentiti, da Tommaso Buscetta a Giovanni Brusca, secondo le quali lo 007 ha fatto gli interessi di Cosa nostra. Come ha detto il pg Antonello Mura nella sua requisitoria, Contrada è “colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio”. Nato a Napoli il 2 settembre 1931, entra in Polizia nel 1958 e frequenta a Roma il corso per funzionari presso l’Istituto superiore di Polizia. Al termine viene assegnato prima alla Questura di Latina e, successivamente al Commissariato di Sezze Romano, un tranquillo paesino del Lazio, dal quale Contrada chiede ben presto di essere trasferito, in quanto desideroso di operare concretamente in una città di frontiera. Viene trasferito a Palermo, nella città più “calda” d’Italia, dove già era cominciata la mattanza per la prima guerra di mafia. In questa città lavora alacremente e scala tutti i gradini della carriera: – nel 1973 diviene il capo della Squadra Mobile, – nel 1976 passa a dirigere il Centro Interprovinciale della Criminalpol per la Sicilia Occidentale (dal 1979 al primo febbraio 1980 dirige interinalmente anche la Squadra Mobile) e ricopre tale incarico fino a gennaio del 1982; – nel gennaio del 1982 transita nei ruoli del SISDE (Servizi per l’Informazione e la Sicurezza Democratica) con l’incarico di coordinare i centri SISDE della Sicilia e della Sardegna; – nel settembre del 1982 nominato dal prefetto De Francesco Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario per la lotta contro la mafia, incarico che ricopre fino al dicembre del 1985; – nel 1986, per la grossa professionalità maturata nel campo della lotta alla mafia, chiamato a Roma presso il Reparto Operativo della Direzione del SISDE. – il 24 dicembre del 1992, giorno della Vigilia di Natale, mentre si accingeva a trascorrere le vacanze di Natale a Palermo con la famiglia, viene arrestato a seguito di un ordinanza di custodia cautelare emessa il giorno prima dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo su richiesta della Procura della Repubblica, viene condotto a Roma nel Carcere Militare di Forte Boccea. L’accusa è “concorso esterno in associazione mafiosa” I quattro “pentiti”, più correttamente definiti “collaboratori di Giustizia”, sono: Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese e Rosario Spatola.

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